QUANTO È DIFFICILE IL DANESE?
Tolto che la difficoltà di una lingua è percepita in modo diverso da ognuno di noi, è indubbio che il danese possa apparire ostico a molti italiani che in Danimarca si trasferiscono o programmano di farlo, e quindi tentano di approcciarsi al danese.
In realtà, il danese è una lingua che in apparenza sembra lontanissima dall’italiano, ma è più facile di quanto si pensi. Più che la grammatica che, anzi, è molto semplice, o il lessico, è la pronuncia a rappresentare il vero ostacolo per chiunque, non solo gli italiani, cominci ad impararlo. Persino gli altri scandinavi riconoscono la difficoltà della pronuncia danese che, in maniera simile a francese e inglese, tende a non pronunciare tutte le lettere presenti in una parola. Ma andiamo con ordine.
Quanto è difficile la lingua danese?:
LA GRAMMATICA DELLA LINGUA DANESE
Al pari della maggior parte delle lingue germaniche, eccetto il tedesco, la lingua danesee presenta una grammatica piuttosto semplice, specie se paragonata a quella dell’italiano e di tutte le lingue romanze che ereditano dal latino un intricato sistema di regole ed eccezioni.
Sempre tipico delle lingue germaniche è l’assenza di generi maschile e femminile per le parole, che si dividono più semplicemente in n-ord o t-ord, ovvero “genere comune” e “genere neutro”. Non c’è una regola specifica che divida le parole comuni da quelle neutre, ma di solito fanno parte delle n-ord animali o concetti, e delle t-ord oggetti inanimat. Ad esempio: en fugl (“un uccello” e et bord “un tavolo”.
I due si differenziano sia per le forme indeterminate o determinate, caratterizzate appunto da una -t o una -n, ma sono identici per il plurale, che in danese è sempre -r/er come forma indeterminata, e -e/ne per la forma determinata. (es. bøger “libri”, “bøgerne” i libri).
Semplice è poi la coniugazione dei verbi, uguale per tutte le persone con desinenza -r/er (At bo “vivere”, Jeg/Du/Han-Hun/Vi/I/De bor).
L’unica vera difficoltà grammaticale del danese, tipica di tutte le lingue scandinave, è la cosiddetta Inversione, ovvero quando il soggetto passa da prima a terza posizione nell’ordine della frase. Dal momento che in danese il verbo deve essere sempre in seconda posizione, l’inversione si applica quando la frase inizia, ad esempio, con un avverbio (I dag er jeg på ferie, “oggi sono in vacanza”) o nelle frasi interrogative.
LA PRONUNCIA DANESE
Come detto, è la fonologia la parte più complicata del danese. Rispetto ai vicini scandinavi e all’italiano, in danese si tendono a non pronunciare tutte le lettere di una parola, cosa di per sé già complicata per chi viene da lingue, come appunto l’italiano, che invece le pronunciano tutte. Ci sono poi altre complicazioni, come la cosiddetta “r moscia”, simile a quella tedesca o francese e assente in svedese e norvegese; la “ø”, corrispondente al dittongo “oe” e pronunciata quindi come una “O” molto chiusa; l’assenza di pronuncia della “g” nella maggior parte delle parole; e infine la Soft D, un modo di pronunciare la D in mezzo o alla fine delle parole quasi impercettibile, e più vicino al suono di una L.
IL DANESE E LO STØD
C’è poi lo Stød, una particolarità tutta danese e che riguarda il modo di pronunciare alcune parole, spesso per differenziarle da altre molto simili. La difficoltà maggiore è che lo stød non viene rappresentato con un segno specifico nell’ortografia danese. Tuttavia, esistono alcune tendenze che permettono di prevederne la presenza. Ad esempio, nei monosillabi che terminano in -nd con una d muta, lo stød è generalmente presente (hund ~ hun, mand ~ man, vend ~ ven). Viceversa, nei monosillabi con vocale breve seguita da -n, lo stød è assente. In trascrizione fonetica, lo stød viene indicato con il simbolo [ʔ] o [ˀ], oppure con un apostrofo.
Lo stød può essere realizzato in diversi modi. Nel danese standard (rigsdansk), si manifesta principalmente come una tensione glottale che provoca vibrazioni irregolari delle corde vocali, spesso percepibile come una voce crepitante o rauca. In un parlato più marcato, lo stød può anche apparire come una chiusura glottale completa, simile a un colpo di glottide.
Sebbene molti linguaggi presentino suoni glottali, come il colpo di glottide nei dialetti cockney dell’inglese (es. buʔer per butter) o nella pronuncia di alcune parole tedesche (es. beʔachten), il danese utilizza lo stød in un modo unico. Non viene considerato un fonema indipendente, ma piuttosto una modifica della modalità articolatoria che si applica alla sillaba.
Qualche esempio:
• andʔen (l’anatra) ~ anden (secondo)
• tændʔer (accende) ~ tænder (denti)
• løʔber (colui che corre) ~ løber (scorre)
I NUMERI IN DANESE
Infine, il danese può essere difficile dal punto di vista del sistema numerico. Anche in questo caso si differenzia dai vicini scandinavi e si avvicina al francese, in quanto il suo sistema si basa non sui multipli di dieci (come in italiano), ma sui multipli di venti, e solo da un certo momento.
Fino a 40 c’è insomma un sistema logico:
• 2, 12 e 20 si dicono rispettivamente “to”, “tolv” e “tyve”;
• 3, 13 e 30 “tre”, “tretten” e “tredve” (pron. Træ[d]ve);
• 4, 14 e 40 “fire”, “fjorten” e “fyrre”.
Dal 50 in poi, invece, il sistema si basa su quante volte il 20 possa essere contenuto in quel numero. Per questo:
• 50 è halvtreds, abbreviazone di halvtredsindtyve, letteralmente “due volte e mezzo venti” o “quasi tre volte venti”.
• 60 è tres, abbreviazione di tresindtyve, ovvero “tre volte venti”.
E così via.
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